Quei tre giorni me li ricordo tutti – Lettera di Luca (da Zapruder #54)
Ripubblichiamo anche sul nostro sito la lettera di Luca Finotti inclusa nel numero 54 di Zapruder dedicato al 20ennale di Genova.
Quei tre giorni me li ricordo tutti
Luca Finotti
Quando mi è stato chiesto di scrivere qualcosa per questo libro mi sono ritrovato a pensare sul da farsi e, automaticamente, a fare un bilancio di questi ultimi vent’anni, di che piega abbia preso la mia vita, soprattutto che piega io le abbia fatto prendere. E quindi, qui di seguito, ho deciso di mettere per iscritto, a grandi linee, questo periodo partendo da dopo il G8 arrivando a oggi. Premetto che, in tutti questi anni, un ragionamento che mi ha permesso di mantenere un certo equilibrio mentale e quindi di riuscire a prendere un certo distacco dalla cosa è stato quello di non essermi mai sentito un capro espiatorio, sfortunato si, molto sfortunato, ma comunque non abbastanza, tanto da poter essere qui a raccontare.
Quei tre giorni me li ricordo tutti, per filo e per segno, sono stati raccontati in tutte le salse, nei documentari, nei libri, nelle aule di tribunale e sinceramente, come testimone, non credo di poter aggiungere qualcosa che non sia già stato detto, già visto e rivisto; più interessante può essere sapere cosa è successo dopo e il mio dopo inizia nel febbraio 2002, un venerdì, quando un amico mi chiama la mattina presto e chiede di incontrarmi per discutere a quattrocchi di una questione urgente. Mi vesto ed esco pensando a cosa possa essere successo, arrivato alla fermata del bus sulla locandina del giornale cittadino fuori l’edicola adiacente leggo: «un pavese in piazza Alimonda». Dalle pagine del giornale non esce nessun nome ma solo il più stretto riserbo degli uffici della questura, salgo sul bus e incontro l’amico che mi chiede che intenzioni ho trovandomi totalmente impreparato, non so cosa rispondergli, prendo tempo e comincio a guardarmi le spalle quando sono in giro.
Il giorno dopo vado a lavorare, un pub dove faccio i fine settimana; arrivando con l’autobus noto una macchina della digos ferma nel piazzale antistante, nessuno a bordo, oltre a questo i tre in borghese, della narcotici, clienti fissi del sabato mattina mancano in sala, mi squilla il telefono: è mio padre che non vedo e non sento da più di un anno, mi chiede cosa ho combinato a Genova l’anno prima. Niente rispondo, allora perché ho qui un giornalista del «Secolo XIX» che mi dice il contrario mi chiede, me lo faccio passare e mi conferma la chiusura del cerchio, mi propone un’intervista, gli dico di passare, è meglio andarsene da lì. Appena arriva ci accordiamo per andare a Genova, alla sede del suo giornale, gli chiedo di poter avere un avvocato del posto, si può fare mi dice, gli dico di prendere la macchina e di venirmi a prendere nella via sul retro del bar. Ancora oggi ricordo, mentre camminavo, sentendo un’auto arrivarmi alle spalle, la tensione che ho provato e alla fine il sollievo scoprendo fosse l’auto del giornalista e non quella della digos.
Arrivati nella sede del «Secolo XIX», aspettiamo l’avvocato promessomi, quando arriva la riconosco subito: la sera del 20 luglio 2001, dopo la morte di Carlo, mi recai alla tristemente nota scuola Diaz, dove aveva sede il supporto legale, per raccontare a qualcuno quello a cui avevo assistito. Raccolse le mie parole l’avv. Tartarini, la Laura, mi disse che erano uscite le foto nelle quali era palese che a sparare fosse stato un carabiniere e quindi non fosse necessaria una mia testimonianza. Autorizza la mia intervista e si propone di andare a parlare con il pubblico ministero responsabile dell’inchiesta per far si mi presentassi spontaneamente per rendere dichiarazioni in merito. La settimana seguente mi trovo con lei al quarto piano del palazzo di giustizia aspettando di essere interrogato dal pm Franz in merito ai fatti di piazza Alimonda: immediatamente mi viene mostrato un book fotografico con il mio nome sulla copertina e che quindi mi riguarda, il tutto accompagnato dalla frase «o me lo dici tu o te lo dico io cosa hai combinato quei giorni» (il 20 e il 21). Ai tempi mi parse strano che, pur trovandomi a dover rispondere di un fatto specifico, mi sono ritrovato a dover dar conto di tutte le situazioni nelle quali risultavo implicato. Prendo in mano la raccolta e, fotogramma dopo fotogramma, rendo ampie dichiarazioni prendendomi la responsabilità sui fatti contestatimi. La sera torno a casa con le mie gambe. Ancor più strano mi parse dieci mesi dopo, il 4 dicembre 2002, di notte, essere messo agli arresti domiciliari, perché socialmente pericoloso, per gli stessi fatti contestatimi a febbraio e per i quali non avevo negato la mia partecipazione. La sera prima, uscendo da un’agenzia di lavoro interinale dove avevo ritirato il mio libretto di lavoro dopo essermi licenziato, notai dall’altra parte della strada un uomo che fissandomi quasi inciampa e cade: non l’avevo mai visto prima. Mi dirigo verso il centro storico controllando, ogni tanto, alle mie spalle se quello strano figuro mi stesse seguendo: la prima volta lo notai guardare la vetrina di una panetteria, la seconda quella di un negozio che vende gomitoli di lana. Insomma non mi tornavano i conti, così dopo aver svoltato in un vicolo mi fermai appena dietro l’angolo, eccolo apparire, stupito fossi lì ad attenderlo, mi passa davanti e comincio a seguirlo io, dopo pochi metri, di fronte al bar che frequentavo in quel periodo, eccoli, due della digos che conoscevo benissimo. L’uomo si ferma con loro, io proseguo e loro dietro a rimorchio.
Arrivati in piazza della Vittoria c’è il mercatino di natale, decido di infilarmi in una via dove, arrivati in fondo, si è obbligati a girare a destra da sinistra, così, arrivato in fondo butto un occhio indietro e noto il trio ancora a metà via, svolto a destra, mi metto a correre e li semino.
La sera scendo al bar, quello dove i due mi attendevano e, appena entrato, mi viene incontro il proprietario che, visibilmente preoccupato, m’informa che la digos era stata più volte lì a cercarmi durante il giorno; ai tempi non mi passò minimamente per la testa che fossi pedinato per i fatti di Genova. Dormo a casa di un’amica che mi ospitava per qualche giorno: aspettavo mi pagassero prima di partire per l’Olanda visto che dopo il mio riconoscimento di febbraio mia madre smise di ospitarmi, persi il lavoro e gli unici lavori che riuscivo a trovare erano da sfruttato interinale. Alle quattro del mattino mi squilla il telefono, dall’altra parte un mio caro amico, mi avverte che ha la polizia in casa e che questi cercano me, gli tolgono il telefono e mi chiedono dove sono, gli faccio presente che so dove sono loro e che in un quarto d’ora mi sarei presentato; mi vesto ed esco, faccio poca strada, da una laterale sbucano tre auto, inchiodano, scendono in una dozzina, mi lanciano sul retro di una delle tre e ripartiamo sgommando nella nebbia; arriviamo a casa del mio amico, mostro i polsi per farmi ammanettare, quelli di Genova mi dicono di stare tranquillo, quelli di Pavia sono incazzati neri, ci mancava poco facessero un buco nell’acqua e comunque hanno fatto brutta figura con i colleghi. In casa, ci sono solo due borse, le devono perquisire, mi chiedono se all’interno ci siano armi o droga, rispondo calze e mutande, mi consegnano il mandato di cattura, più di trecento pagine, andiamo in questura, vado ai domiciliari. Ancora ricordo la mattina verso le 8:00 negli uffici della digos, mentre attendevo espletassero le ultime formalità, il via vai di agenti, in divisa e non, che venivano a guardarmi come si guarda un animale in catena allo zoo.
La mia misura cautelare è durata cinquantuno settimane, ogni mese facevo presentare istanza alla Laura per attenuarla e tutti i mesi ho ricevuto i rigetti della dott.ssa Daloisio (gip) e dal tribunale del riesame ma, a due settimane dalla scadenza termini, il gip mi ha fatto sapere che se avessi avanzato istanza sarebbe stata accettata. Feci sapere che l’avrei fatto solo se mi avesse accordato una firma in questura a settimana, mi disse di si, feci presentare l’istanza, mi diede tre firme a settimana e l’obbligo di rimanere nei confini della mia città. Intanto è cominciato il processo, il 2 marzo 2003, quel giorno Haidi mi venne a prendere in stazione, c’è un gran trambusto in città, manifestazioni, polizia in assetto antisommossa, l’aula bunker, le gabbie, i giornalisti, gli altri imputati. La sera, tornato a casa, i telegiornali, i giornali del giorno dopo: da quel giorno in poi ricordo che i volti delle persone con cui avevo a che fare hanno iniziato a guardarmi con un’espressione che io chiamo da sindrome madre Teresa di Calcutta, la stessa con cui si guarda un uomo senza né braccia né gambe che chiede la carità, un’espressione che non ho mai sopportato. Ho sempre avuto le spalle abbastanza larghe per sopportare quello che mi è capitato e mi sono sempre assunto le mie responsabilità anche se, ad un certo punto della mia vita, tirate le somme, a poco è servito e allora ho scelto la latitanza: se mi vogliono in carcere per quei fatti mi trovino, non si aspettino che sia io ad andare a bussare alle loro porte. Comunque sia, prima di espatriare, ho dovuto sopportare una serie di situazioni che vanno oltre il non trovare lavoro per il nome che mi ero fatto: controlli continui durante i domiciliari a qualsiasi ora del giorno e della notte, la digos che intima ai gestori dei posti che frequento di vietarmi l’ingresso, la sensazione dell’avere terra bruciata intorno a me, i continui controlli di documenti, le battute quando mi tocca di dover andare in questura o dai carabinieri fatte dagli stessi, la notifica dell’ammonizione del questore lo stesso giorno della sentenza di condanna in appello a dieci anni e nove mesi. Ho cercato di esorcizzare il tutto trovandomi una brava ragazza, andando a convivere, progettando il matrimonio, ma a poche settimane da questo lei cambia idea; sapeva benissimo chi fossi e quindi non la biasimo per il passo indietro, magari per la tempistica. Alla fine, in Italia, non avevo più niente per cui rimanere e quindi me ne sono andato a Londra e ci sono rimasto per cinque anni, via da lì a Bruxelles dove sono rimasto un paio di anni; ho conosciuto una persona che mi ha offerto documenti falsi, ho accettato e sono partito per Berlino.
In vita mia mai avrei pensato di arrivare ad avere documenti falsi ma ormai è fatta e ora non sono più Luca, ora sono Salvatore, nato a Catania e ivi residente; ora, i miei sono tutti e due nati e cresciuti nel nord dell’Italia, io in Sicilia ci sono stato qualche volta in vacanza, non passerei mai per un catanese e quindi mi sono dovuto inventare di essere nato lì, si, ma quando avevo tre anni mi sono trasferito a Torino, città che conosco e dove avevo parecchi amici, risolvendo così le problematiche possibili dovute anche al fatto che in siciliano so dire solo minchia e zibibbo.
Vivo in una casa occupata a Kreuzberg frequentando pochi italiani; uno di questi un giorno, avendo lui la patente sospesa, mi chiede di portargli in Italia, a Rovereto, un furgone appena acquistato, avendo io conservato la patente con il mio nome vero. Ricevendo un buon compenso ed avendo il viaggio di ritorno pagato, accetto e partiamo. Passo il sabato a Rovereto. Domenica mattina, recandomi a Verona per tornare in Germania dove il giorno dopo avrei dovuto lavorare, vengo fermato per un controllo dai carabinieri: nel 2010 avevo patteggiato dieci mesi sospesi con la condizionale per un incendio; essendo irreperibile per la notifica della condanna, mi veniva revocata la sospensione condizionale, da lì il mandato di cattura. È stata la prima volta che sono entrato in carcere, mi ricordo il silenzio dei corridoi e le luci sempre accese. Alla casa circondariale di Trento ci ho passato tre mesi, in questo periodo sono andato a Genova per l’ennesima udienza sui fatti del G8; ora, quando sei detenuto è un tuo diritto poter presenziare alle udienze che ti vedono imputato ma, quando vieni trasferito da carcere a carcere ad una distanza di più di quattrocento km, possono passare mesi prima che tu possa tornare da dove sei partito. Così raccogli tutta la tua roba e saluti i compagni come se non vi doveste rincontrare più. L’udienza è l’appello-bis; la cassazione, dopo aver abbassato la mia pena da dieci anni e nove mesi a otto anni tondi tondi, dice che la corte d’appello di Genova non ha applicato uno sconto, un’attenuante, che mi sarebbe spettata. Da qui nuova udienza ma comunque otto anni confermati, e questi li porterò fino alla fine perché poi li riconfermerà la cassazione-bis. Di quel giorno mi ricordo l’aula piena, Haidi e Giuliano preoccupati e la Laura per l’ennesima volta nel collegio di difesa; pensandoci, la conosco ormai da vent’anni ma ci siamo sempre visti o nel suo studio o in un’aula di tribunale. Quella sera fuori dal carcere di Marassi, dove mi trovavo nella sezione transitanti, il presidio, i cori, i fuochi d’artificio, dentro i detenuti urlano e sbattono pentole sulle sbarre. La mattina seguente, alle cinque, un ispettore e un brigadiere entrano in cella, mi dicono di prepararmi, «torni a Trento». All’arrivo altro presidio sotto il carcere, il giorno dopo mi fa chiamare il magistrato di sorveglianza, mi dice che con sette mesi da scontare potrei usufruire dello svuotacarcere ed entrare ai domiciliari, magari da mia madre, le faccio presente che non ho contatti con mia mamma da anni e mi congeda. La mattina seguente entra in cella il direttore, mi dice di farmi i sacchi, vado a casa ai domiciliari, gli faccio presente di non aver presentato nessuna istanza, mi fa spallucce e mi fa accompagnare alla porta. Sui sette mesi da scontare sono riuscito a farne tre, la mattina lavoravo per un mio amico avvocato, il resto del giorno in casa; poi un sabato mattina sono andato in comune e ho fatto la carta d’identità, sono tornato a casa e ho aspettato che passasse il controllo, ho preso la valigia e sono tornato a Berlino; arrivato lì ho buttato il documento nuovo e ho rimesso nel portafoglio quello falso. Gli echi dall’Italia erano arrivati anche lì, ho resistito due anni e trovato lavoro in Svizzera, mi sono trasferito a Zurigo; per lavorare lì bisogna avere il permesso di lavoro. Il problema è che tre anni prima le mie impronte vennero associate al nome falso durante un controllo dove mi trovavo sprovvisto di documenti; il problema è che gli svizzeri sono svizzeri e così, un sabato, mentre mi trovavo allo stadio per il derby tra Zurich f.c e Grassopher non feci in tempo a vedere che i primi cinque minuti; poi, in un attimo, mi trovai circondato da sei energumeni in borghese, tempo di leggere la scritta Interpol ed ero fuori lo stadio in manette; quella volta sapevo benissimo il perché erano lì! Decido per l’estradizione veloce, cinque giorni e sono a Chiasso nella cella di sicurezza. Ricordo la faccia del vecchio ispettore della digos di Pavia che mi sorride dall’oblò della porta blindata; da lì una settimana al carcere di Como e l’avvicinamento al carcere di Vigevano dove ho passato due anni. Per l’ennesima volta dovevo ricominciare tutto da capo ma, nonostante secondo il mandato di cattura internazionale dovessi scontare nove anni e tre mesi, mi sentivo sollevato. Alla lunga la latitanza stufa e io ero proprio stufo. Il mandato di cattura presenta due errori grossolani, voluti o non voluti: il primo è che, secondo il documento, sarei evaso nel 2002 dal carcere di Marassi quando invece ero ai domiciliari; il secondo, un po’ più fastidioso, è che nel calcolo totale delle pene (otto anni per il G8, più i sette mesi mancanti dell’incendio e una condanna durante il servizio militare) mi è già stato applicato lo sconto di tre anni per l’indulto del 2006 nel quale rientravo come tutti gli altri condannati per i fatti di Genova quando invece, facendo i conti, dell’applicazione non vi è traccia. Avviso la Laura e in un mese mi ricalcolano tutto, accettandomi il continuato sulle pene, arrivo a quattro anni e undici mesi più otto mesi che ho patteggiato per l’allontanamento dai domiciliari dopo Trento. Ora mi trovo in una comunità ergoterapeutica vicino Cremona. Le canne le ho sempre fumate, in Germania ho fatto largo uso di anfetamine per mantenere i ritmi di lavoro e comunque c’è stato qualcuno al carcere di Vigevano che ha spinto per farmi scontare la pena all’esterno. L’esperienza del carcere, nonostante non l’augurerei a nessuno, non posso dire sia stata del tutto negativa: ho capito la solidarietà, quella più spiccia, non mi sono mai sentito solo ed ho capito subito dal giorno uno che l’importante è non farsi sopraffare dalla situazione, lì si è solo di passaggio, meglio non aspettarsi niente di buono, essere realisti conviene.
Questo piccolo capitolo lo dedico alla famiglia Giuliani che, nonostante tutto, ho sempre sentito vicino; a Carlo, che non ho mai conosciuto se non attraverso le parole della madre. Il disagio che posso aver passato io in tutta questa storia è nulla se confrontato con il dolore che hanno passato le persone a lui più vicine. Anche questa convinzione mi ha aiutato a mantenere l’equilibrio in tutti questi anni.
Per tutto il resto vale il solito slogan: in ogni caso nessun rimorso!